Pepe



Forte Fanfulla 15 e 16 marzo 2013 “Pepe” di e con Laura Riccioli, supervisione alla messa in scena Alberto Bellandi. Questo spettacolo nasce dai sei anni di insegnamento di teatro e pittura che l’attrice ha svolto al carcere di Civitavecchia. E’ lì che le due donne, che questo monologo racconta, si incontrano. Una è una detenuta. L’altra è un’insegnante di pittura e teatro. Il pretesto di questo incontro è l’arte. Il mezzo è il dialogo. Dialogo col carcere, con sé stesse, con il fuori, l’una con l’altra, partendo da dentro. Questo dialogo qui, in teatro, si farà monologo: il monologo di Espedita Pepe, la detenuta, durante una delle sue lezioni di pittura. La detenuta e la professoressa, al di là del gioco dei ruoli e nonostante la grande e forse insormontabile differenza della loro storia di vita, scopriranno di avere molte cose in comune e soprattutto di potersi insegnare molto. “Pepe” è il frutto dell’urgenza di condividere con il “fuori” le domande, le riflessioni, i rapporti e gli episodi che ho vissuto “dentro”, quasi di nascosto, clandestinamente. Non si può frequentare a lungo un carcere senza interrogarsi sui meccanismi di inclusione ed esclusione sui quali si fonda la nostra collettività, il nostro ruolo di artisti e la nostra funzione nei confronti della società. In mancanza di risposte definitive portare a teatro Espedita mi sembra il modo migliore per farla dialogare con questo “fuori”, lei che chiede, famelica, di fare un corso di teatro come se equivalesse a evadere, come fosse una soluzione, una mamma che non ti viene a trovare, la libertà, appunto. Il carcere è presente nel testo nelle risposte che non dà, nelle contraddizioni che crea alle due donne, nella straordinarietà delle condizioni che le fanno incontrare. Ma, al di là di una riflessione sul carcere o sulle cause che hanno portato Espedita in carcere, quel che più preme a questo racconto è lo spessore umano del confronto tra queste due persone e degli interrogativi che si pongono reciprocamente. Interrogativi che sono l’unico strumento che rimane alla loro insopprimibile esigenza di felicità che, sia nel caso della professoressa che in quello della detenuta, coincide con un’ esigenza profonda di capire che cosa sia per noi la libertà. Il senso del carcere, il senso dell’arte in carcere, i dubbi sulla sua funzione liberatoria e umanizzante, la responsabilità individuale e collettiva nei confronti di interi strati della società che soffrono di un impoverimento culturale che ne nega ed impedisce qualsiasi aspirazione ad una vita completa e degna. Chiedersi che alternativa proporre al carcere. Basta essere fuori da una cella? L’inconfessabile sensazione di essere imprigionati “non si sa bene da cosa” diceva Vincent Van Gogh, per poi arrivare alla conclusione che, come sempre, sono le relazioni che ti aprono la gabbia e che non sia possibile liberarsi se non liberando, ma di una libertà liberata, che comprenda tutti. Espedita contiene tutto questo perché come disse lei stessa: “è come un autobus dove c’è sempre posto”. Forse è per questo che quando parla con lei, la professoressa, spesso, si sente libera. Se Espedita lo sapesse probabilmente si sentirebbe tradita.

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